Quel tipico panno-lana con la superficie riccioluta, più che altro diffuso nei colori verde bandiera ed arancio becco d’oca, noto con il nome di casentino, particolarmente gradito un tempo ai signorotti della campagna toscana, specie se con il collo “guarnito” con una pelliccia di volpe rossa, non è altro che il discendente ingentilito di quell’antichissimo panno rusticale contraddistinto dai mercanti fiorentini del ‘300 con il termine di panno grosso di Casentino.
Da più di un secolo questo caratteristico tessuto ha incontrato il favore del pubblico, tanto che molti personaggi della politica, della cultura e dello spettacolo (anche Audrey Hepburn nel film “Colazione da Tiffany” indossa un cappotto realizzato con questo panno), non disdegnano vestirsi con capi di abbigliamento realizzati in questo singolare panno-lana. Purtroppo le nostre ricerche non sono riuscite a determinare con matematica certezza la data di nascita di questo eccentrico tessuto e nemmeno abbiamo potuto stabilire attraverso documentazione certa quale lanificio, per primo nella valle, lo abbia realizzato. Va subito detto che la complessità del caso sta esclusivamente nello stabilire chi abbia importato per primo e in quale anno, una macchina chiamata ratinatrice, (da ratiner: accotonare; fare batuffoli di cotone) indispensabile per eseguire il finissaggio a riccioli che caratterizza questo panno. Di certo sappiamo che alla fine dell’800 o ai primi del ‘900, epoca in cui comparve il tessuto in menzione, solamente due ditte nella vallata casentinese erano in condizione di importare dall’estero macchine come la ratinatrice. Queste erano le fabbriche tessili di Stia e di Soci.
Il limite di tempo a cui facciamo riferimento è determinato da alcune documentazioni che ci dimostrano come nel 1890 il panno casentino con la parte del diritto ratinata (quella con il ricciolo) non era apparso ancora sui mercati, mentre, nel 1915/16, è provata la presenza nel Lanificio di Stia di una macchina a ratinare di fabbricazione tedesca (proveniente da Aachen, al confine tra Germania-Olanda-Belgio). L’abbiamo individuata fortunosamente scrutando con attenzione una raccolta di immagini di questo Lanificio eseguite nella primavera del 1916. Da molti in Casentino questa macchina è impropriamente chiamata “rattina”.
Essa è composta da due fiancate, dal corpo della macchina e da due grosse tavole orizzontali lunghe e strette attraverso le quali avanza ben teso il tessuto da ratinare; l’asse inferiore, fissa, è strettamente fasciata con un buon panno, quella superiore, rivestita di norma da una tromba di caucciù, esercita una pressione regolabile sul tessuto; questa è detta tavolo ratinatore poiché per effetto di comandi elettrici, che gli imprimono un movimento circolare, provoca sulla superficie pelosa del tessuto l’effetto ratinè a riccioli.
I movimenti del tavolo superiore possono essere anche esclusivamente rettilinei e allora si ottengono effetti ondulati longitudinali, trasversali e diagonali destri o sinistri. Questa è la descrizione della ratinatrice come di norma esce dalla fabbrica di produzione; ma in Casentino, si apportavano piccole ma sostanziali modifiche alle guarnizioni, specialmente a quelle del tavolo ratinatore, che dovendo in questa zona operare su lane ordinarie, necessitava di maggiore effetto ratinante per obbligare i pelami nostrali ad assumere e stabilizzarsi nell’effetto desiderato.
Se nel 1916 essa era già in dotazione allo stabilimento di Stia, non è detto che fosse stata acquistata proprio in quell’anno, essendo quello il periodo critico della prima guerra mondiale in cui tutti gli sforzi produttivi del Lanificio erano concentrati sulle forniture militari. Sicuramente la ratinatrice aveva già diversi anni quando fu ritratta nell’immagine che ci è giunta.
D’altra parte la linea della macchina, il disegno delle fiancate, alcuni ingranaggi in legno esistenti nei suoi meccanismi (dalle testimonianze orali raccolte a suo tempo sappiamo che queste furono sostituite successivamente a Stia con altre in fusione di ghisa), la qualificano come un oggetto molto vecchio.
Così il periodo probabile dell’arrivo della macchina, e la conseguente nascita del casentino con i riccioli, verrebbe a circoscriversi a uno spazio di tempo non maggiore di due o tre anni.
L’approfondimento di una datazioni più esatta ad un certo punto si è interrotta per causa di forza maggiore: i tentativi compiuti nella speranza di ritrovare e contattare la ditta che costruì la ratinatrice di Stia sono stati vani poiché la ditta Tilman Essen-Inhabert: Mateheé & Scheiber di Burthexhid bei Aachen (dati che si trovano marcati su una fiancata della macchina) purtroppo non esiste più.
Intorno agli anni Settanta la ratinatrice scomparve, ignorata nelle tante vicissitudini commerciali di questo Lanificio; se ne persero le tracce anche da Prato dove l’avevamo rindividuata.
Soltanto una minuziosa ricerca, pellegrinando di mercante in mercante per il centro-nord d’Italia, ci ha dato la soddisfazione di rintracciare questo esemplare degno del più prezioso collezionismo archeologico-industriale casentinese e toscano a Lonate Ceppino in provincia di Varese all’interno della ditta Ramtex, probabilmente pronta per passare di là in mano a qualche collezionista.
Così come un “atto di giustizia”, dopo un secolo di vicissitudini, grazie alla benevolenza della Famiglia di Italo Radini proprietaria della ditta Ramtex essa è finalmente tornata nel Lanificio di Stia, a simboleggiare il remoto vincolo di un’intera valle con l’Arte tessile e ad attestare anche la paternità di un tessuto che, acquistata fama internazionale, ha fatto il giro degli ateliers di tutto il mondo.